Strategie di prevenzione della violenza sulle donne e sui minori
Il progetto è finanziato dal Ministero della Salute – CCM per rafforzare nelle aziende sanitarie i percorsi di assistenza per donne e minori vittime di violenza.
L’importanza della prevenzione nella scuola attraverso il dialogo ed il confronto.
Una testimonianza di vita, per cercare di condividere l’idea che non solo possiamo sopravvivere al dolore, ma che le sofferenze e le difficoltà della vita ci possono rendere migliori, perché quello che oggi sembra farci cadere può essere quello che domani ci aiuterà a stare in piedi.
Papà Gianpietro racconterà la propria storia e quella di suo figlio Emanuele.
Oratorio parrocchiale, sabato pomeriggio: giungono distintamente schiamazzi dal campo di calcetto per la partita in corso, poco distante un ristretto gruppo di quattordicenni obiettivamente troppo poco vestite si dilettano in un balletto di gruppo davanti allo schermo di un cellulare… proprio di fronte a loro un altro gruppetto misto con qualche anno in più. Sono seduti sul muretto che delimita il giardino. Mi fermo ad osservarli: ognuno ha in mano il suo smatphone, a tratti parte una sonora risata che contagia gli altri e induce qualcuno ad accostarsi a qualcun altro per sbirciare lo schermo e rinvigorire ancora di più la risata. Ad un certo punto da uno dei cellulari parte una musica ad alto volume e alcuni di loro iniziano a cantare accennando i movimenti del trapper di moda, poi tornano a sedersi.
“Maranza… cringe… nabbo… tech…” sono alcune delle parole che si rincorrono nel loro linguaggio mescolate, in un modo per me quasi incomprensibile, a quelle della lingua italiana.
È curioso, mi viene quasi da sorridere per il fatto che questo momento di vita quotidiana in un luogo così semplice mi faccia sentire fuori dal mondo. Dal loro punto di vista sono una boomer anche se per anno di nascita rientrerei nella categoria che si è guadagnata l’appellativo di generazione x la cui definizione è spaventosamente triste… quindi se posso scelgo volentieri boomer… molto meglio!!!
Questi giovani sono il nostro futuro, il domani dell’umanità, mi rendo conto di quanto il giudizio adulto potrebbe facilmente cadere nella trappola dell’etichettamento di fronte alla scena che ho davanti a me. Ma in fondo cosa stanno facendo questi giovani? Perché la loro attenzione è attratta più dagli schermi che dall’altro? Perché stanno qui fuori al freddo piuttosto che a casa di qualcuno a fare una qualunque cosa insieme? Perché sembrano non parlarsi? Comunicano? E perché parlano così?
Poi, da vera boomer ripenso ai giovani dei miei tempi, ai gruppi di ragazzi seduti sullo stesso muretto circa 30 anni fa: le carte da gioco, lo walkman sempre a portata di mano… cori e sfottò che potevano scattare all’improvviso quando meno te lo aspettavi e addirittura, se si era abbastanza certi di non essere visti, qualcuno poteva tirar fuori una sigaretta rubata dal pacchetto dei genitori… se poi scattava l’idea di fare l’ennesimo scherzo telefonico dalla cabina il divertimento era assicurato e le risate nell’aria sarebbero state del tutto simili a quelle dei ragazzi di oggi.
Cosa hanno di diverso queste immagini se le confrontiamo? L’intento è lo stesso: divertirsi. Cosa cambia? Il modo? No! Direi più precisamente il mezzo…
Gli smartphone creano dipendenza e limitano la comunicazione tra i giovani. Ha un senso e soprattutto la questione della dipendenza da dispositivi elettronici non è certo una questione da prendere sottogamba visto i rischi che può comportare. Ma 30 anni fa stavano pomeriggi interi a giocare a “Prince of Persia” o a “Super Mario” incollati alla Nintendo. Era diverso? Era meglio?
Forse è bene riflettere sul fatto che la posizione di chi giudica è indubbiamente quella più facile, ma è utile? I ragazzi di oggi sono attratti da ciò che è proibito: verissimo, come quelli di 30- 40 e 50 anni fa.
Credo che la strada migliore per comprendere i moderni fenomeni di socializzazione, sia per gli addetti ai lavori (psi-qualcosa, insegnanti, educatori, animatori..) ma anche per i genitori sia sostituire il giudizio con il ricordo, scambiando le nostre esperienze con quelle dei giovani contemporanei e partecipare e lasciarsi coinvolgere di più del loro stile di vita con reale curiosità.
L’eccessivo utilizzo può portare a depressione e stress, lo dice una ricerca di Italian Tech
Davanti alla scuola elementare c’è un gruppetto di quattro bimbi, hanno tra i sei e i nove anni, tre di loro hanno lo sguardo basso e tra le mani uno smartphone. Il cellulare per navigare, chattare, condividere foto, guardare video, spiare i social o leggere arriva sempre prima. I175% degli under 9 lo usa abitualmente, talvolta con i genitori accanto che ammettono di concederlo come premio se i figli sono agitati o arrabbiati. Dai dieci anni in su lo hanno praticamente tutti (96%). È la fase in cui mamme e papà raccontano di aver stipulato patti sui tempi, gli orari e i momenti nei quali i bambini possono usarlo con il parental control per limitare app e siti. Un terzo dei ragazzini delle medie, però, naviga già in totale autonomia, lontano dai genitori, ben prima dell’adolescenza.
Eppure quegli stessi genitori dicono che sì, i giovani passano troppo tempo davanti allo smartphone, l’abuso non è una favola per quanto nera: esiste ed è riconosciuto da tutte le generazioni. A cominciare dagli adulti che anzi sostengono pure che ragazzi e ragazzini non sono affatto consapevoli dei danni che l’attaccamento perenne al cellulare provoca loro. Conseguenze che vanno dall’alienazione alle difficoltà a socializzare, empatizzare ed esprimersi, dalla scarsa autostima all’irascibilità, dalla depressione all’ansia e allo stress.
Questa e altro rivela una ricerca condotta da Swg per Italian Tech, l’hub del gruppo Gedi, e Telefono Azzurro, che sarà presentata oggi alla Camera in occasione dell’Internet Safer Day, la giornata mondiale per la sicurezza in rete. L’occasione è un grande convegno che ha l’obiettivo di creare (e chiedere al governo di far sua) un’agenda digitale per l’infanzia e l’adolescenza con tre priorità: una verifica dell’età che funzioni davvero, l’impossibilità per i minori di sottoscrivere contratti gratuiti con cui barattare dati personali con giochi e servizi digitali, l’obbligo di un pulsante “salva bambini” su tutte le piattaforme per contattare il numero di emergenza del Telefono azzurro in caso di necessità.
Perché se è vero che il magico mondo degli smartphone è pieno di luci — 3 italiani su 5, e ancora più quelli tra la Generazione Zeta, lo considerano lo strumento che ha migliorato la vita, dall’accesso alle informazioni agli spostamenti, dallo shopping ai servizi pubblici, dall’intrattenimento al lavoro e alla formazione — ci pensano le ombre a offuscarne la visione. Lo smartphone si usa moltissimo per noia, quando non si sa cosa fare, per imbarazzo, come scudo sociale, per estraniarsi pure quando si è in compagnia. La nomofobia, ovvero il timore di restare sconnessi, spaventa molto o abbastanza tutti gli under 40, anche se i boomer non possono dirsi immuni, soprattutto nelle grandi città e tra i lavoratori. Ma alla domanda se lo smartphone possa considerarsi per i ragazzi «come la cocaina», paragone contenuto in uno studio del Senato e ripreso dal ministero dell’Istruzione e del Merito, l’85% risponde che è un errore pensare che sia solo un problema dei giovani. Per due terzi andrebbe ridimensionato e i ragazzi trattati con più rispetto. E per la metà, forse, dietro quelle parole c’è la paura di un futuro che gli adulti non capiscono.
Nel corso degli anni è cresciuto il numero degli studenti - della scuola secondaria superiore, dell'università - che compiono parte del loro percorso di formazione all'estero o in altre città d'Italia. Se anche tu sei uno di loro, saremmo lieti di ospitare su questo blog un tuo contributo, dove racconti, proprio alla luce della tua esperienza, quali dei servizi di cui hai potuto usufruire altrove vorresti che fossero disponibili anche a Siena, e quali, invece, tra quelli già presenti nella tua città, ritieni che possano essere migliorati
Sempre più spesso sentiamo parlare dei cosiddetti episodi di “bullismo” o “baby-gang”, in maniera più generica descritti come il risultato di un diffuso disagio che interessa i ragazzi con età prossima o di poco superiore ai quattordici anni.
Il fenomeno è in evoluzione, amplificato come sempre dai social media i quali, com’è noto, giungono senza filtri alla portata di chiunque oggi disponga di un collegamento alla rete…in effetti la quasi totalità della popolazione.
Addirittura, vengono coniati termini nel tentativo di studiare i protagonisti di queste vicende; ad esempio, i maranza, derivato da tamarro o coatto. A tal riguardo, qualcosa in più lo apprendiamo sempre dalla rete (ahinoi), ove questa categoria di giovani viene definita molto sinteticamente come composta da bulletti provenienti dalla periferia, con destinazione i centri urbani di riferimento. Questi ragazzi, aggiungiamo noi, una volta giunti appunto in centro città, sono individuali poiché mostrano look particolari, tendono a manifestare atteggiamenti improntati alla prepotenza (spesso verso coetanei), e sono propensi alla commissione di crimini di minore entità, variamente fastidiosi, sicuramente lesivi del decoro e della vivibilità urbana.
Sommariamente descritto il fenomeno complessivo, il quesito è cosa possiamo fare per contrastare questa tendenza? Un genitore, un insegnante, una figura adulta che comunque sia chiamata ad approcciarsi con questi ragazzi nel tentativo di prospettare loro un modello di riferimento più consono a canoni comportamentali orientati al rispetto delle regole e del prossimo, su quali strumenti può contare?
Verrebbe da rispondere a questa insidiosa domanda con il classico richiamo all’esempio, ma forse qualche riflessione in più si potrebbe offrirla. Può aver senso parlare di seduzione e competizione?
Dunque, quale comportamento risulta più seduttivo tra la frequentazione di una discoteca, con tanto di belle ragazze (rectius ragazzine) e consumo di ogni genere di sostanza (!) e la partecipazione a un incontro culturale, magari in qualche noiosa biblioteca? Come potrà mai vincere una soporifera sala lettura, rispetto a una frizzante serata di sballo?
Ancora, chi risulterà vincente tra il discorso di un genitore (ammesso che abbia il tempo necessario per affrontarlo) o gli insegnamenti di un docente, rispetto ad una libera chiacchierata con un coetaneo, magari su questioni attinenti al tale videogioco, l’ultima delle applicazioni per i telefonini per chissà quale finalità o addirittura i primi approcci verso la sessualità?
La risposta è chiara, sarà senz’altro l’opzione più divertente, più accattivante, più seducente ad avere la meglio. Il terreno sul quale si svolgerà l’immediato confronto, sarà la seduzione, una vera e propria competizione.
Il ragazzo, naturalmente, ma molti di noi in realtà, seguirà il comportamento più seducente, più affascinante, più stimolante, in una competizione che avrà la durata di pochi millisecondi, soprattutto si svolgerà in maniera spesso occulta agli interessati e durante tutto l’arco della giornata, in maniera spietata.
Questo è il tema portante della breve riflessione: essere seducenti, conquistare, vincere una competizione con pochissime regole, con soggetti ad armi impari; riuscire ad attrarre il ragazzo, magari distratto, portandolo a trovare affascinante (quindi a seguirla) una opzione che, invece, potrebbe risultare povera di stimoli se non adeguatamente veicolata. Portare a casa l’obiettivo!
Non è semplice, ma sapere e ricordarsi di vivere in una diuturna competizione, forse potrebbe aiutare a portare a casa l’obiettivo!
Ma che cos’è una parola? Servono ancora le parole oggi? Servono ai giovani? E a noi tutti che adolescenti non siamo più?
Ma andiamo con ordine, così posso spiegarVi come sono arrivato a queste domande filosofiche delle cento pistole. Si perché mi sono posto dei problemi e, come al solito, non ho trovato che soluzioni parziali le quali a loro volta sono state incubatrici di molte altre domande senza risposta. Ho solo concluso, felicemente, che devo farmele. Come spero sinceramente Voi al termine di questa lettura, da qualunque punto di vista mi stiate osservando.
Per il sottoscritto, le giornate piene di questa settimana sono state l’occasione per compiere un viaggio nella parola. Dapprima ci sono state le parole della pace, quelle del Festival ‘La parola che non muore’ di Bagnoregio e Montefiascone, cui ho partecipato https://www.ilmessaggero.it/viterbo/a_bagnoregio_torna_la_parola_non_muore-6987018.html
Ho incontrato ragazzi e ragazze dei licei di alcune città italiane e alla fine eravamo d’accordo su una cosa. Non è poco, La cosa su cui eravamo d’accordo è che le parole contano. Eccome. Quelle della pace contano moltissimo, perché la guerra è un’assenza di parole, un silenzio violento che nasce da parole non dette, o dette male, o semplicemente non comprese. Se le parole fossero quelle giuste non ci sarebbe bisogno di fare la pace, perché non si farebbe la guerra. La pace nasce negli occhi, e nelle parole, di chi guarda e parla. E quelli studenti erano attenti alle parole, eccome. Solo che per loro certe parole hanno un significato diverso dal nostro di adulti, viceversa certe nostre altre sono incomprensibili, alcune altre sono inscindibili da musica e immagini e noi non ce comprendiamo a pieno le accezioni e la profondità, fermandoci in superficie.
Poi tornando a Siena, mi son letto il volume. E ho capito perché da anni faccio quel che faccio. Lavorare sulla lettura e la scrittura con i giovani. Lo faccio perché è assolutamente necessario. D’accordo, è cambiata la letteratura, perfino l’uso stesso che se ne fa, perché, citando il volume ‘è il perimetro stesso della scrittura che non coincide più con i confini dell’intellettuale-letterato, ma calamita nella sua orbita anche figure che provengono da altri settori, come quelli dello spettacolo, delle arti visuali, della musica e così via’. La lingua poi, è chiaramente stratificata tra livelli legati all’italiano che si parla sui media, espressioni dialettali e gergali, in alcuni casi da iniziati, e espressioni derivanti dalle lingue straniere.
D’accordo, alcuni non capiscono perché vi sia quello che qualche commentatore ha definito un inutile e modaiolo accanimento infantile dei boomer nel cercare di ringiovanire pensando di parlare il ‘giovanilese’.
Ma in realtà conoscere le parole e le fonti dell’espressione giovanile non è una moda, non è un rompicapo da boomer, ma è oggi assolutamente necessario. Vuoi per comprendere un segmento di popolazione che è determinante per le sorti di questo Paese, vuoi per entrare in relazione con le loro aspirazioni e i loro disagi (come si fa a farlo senza condividere delle parole, nuove o rinnovate nel senso che esse siano), vuoi per trovare punti di contatto tra le loro parole e le nostre di scrittori, giornalisti, insegnanti, genitori.
È come trovarsi davanti non ad una sola, ma a una molteplicità di Stele di Rosetta, ciascuna proveniente da un canale diverso (social, canzone, media, mainstream, fumetti, cinema e piattaforme indipendenti) ciascuna capace di traslitterare e codificare una diversa modalità di accesso alla lingua italiana. Ed è molto utile aprire gli occhi su questo mondo, o perlomeno provarci.
Non è facile, ma come dicevo necessario. In primis per chi coi giovani ha a che fare tutto il giorno, ad esempio gli insegnanti, che devono fare da ponte, anzi da porta di ingresso, sull’italiano colto, sull’italiano dei classici e dei saggi. È la scuola il luogo dove si viene a conoscenza della potenza creativa del linguaggio e della parola, ma anche di tutte le pressioni ambientali, storiche e normative cui l’italiano ha dovuto aderire e adattarsi nel tempo per diventare quello che è oggi, uno ‘standard’ di comunicazione. È a scuola, come del resto anche in altri contesti sociali e aggregativi, dove i giovani non devono essere intesi’ come portatori di un “italiano selvaggio”, ma come agenti dell’innovazione linguistica: un’innovazione di cui sono parte e della quale devono rendersi consapevoli per imparare a gestire in modo responsabile le proprie risorse comunicative ed essere invogliati a estenderle, in ampiezza e profondità’
Insomma, una lettura che raccomando. Con un’avvertenza, che è quella, contro -intuitiva, di partire assolutamente prevenuti e scettici, per lasciarsi così ancor più conquistare dalla possibilità di conoscere altri punti di vista espressivi, e soprattutto l’affascinante fenomeno in presa diretta di una lingua in evoluzione. Se la lingua evolve, o quanto meno ci prova, vuol dire che si ritiene importante comunicare, che si ritiene ancora la parola un valore. D’altronde, non dobbiamo per primi noi avere chiusure e pregiudizi e così fare quello che imputiamo, in una visione un po’ stereotipata, ai giovani stessi: ovvero essere superficiali, chiusi in una bolla linguistica autoreferenziale e dominata dagli algoritmi.
Ma il viaggio non è finito, e termina a Sarzana, con le parole del civismo e della politica. Le parole servono anche li. E anche in questo caso i giovani le interpretano in modo sorprendente, (sorprendente in fin dei conti poi solo per chi dei giovani non conosce l’enorme potenziale) Se ne è interessata anche la stampa nazionale, perché è un fatto che in qualche modo travalica la politica. I media ne hanno parlato come di un’OPA dei giovani sul centrosinistra locale, visti i magri risultati conseguiti alle ultime elezioni, ma quel che interessa a chi scrive è la valenza generale delle parole usate da coloro che hanno firmato una lettera- manifesto all’attuale classe dirigente. ‘Oggi e soprattutto nel 2023 questo collettivo è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità: ai giovani non si chieda di parlare solo “dei giovani” e“ai giovani”, ma di farsi carico di preparare il futuro, per tutti’. Sacrosanto in ogni campo. Questo non lo si può fare che usando parole, quelle giuste, che tutti possano comprendere e condividere, facendo uno sforzo inedito, da entrambe le parti, che il momento di profondo cambiamento sociale che stiamo vivendo richiede. Davvero.
Ho letto i primi due articoli di questo blog, premetto che non sono di Siena, ma molte delle cose che ho trovato possono essere riportate pari pari ad altre realtà più o meno grandi ed in verità anche alla mia. Quindi mi è venuta voglia di scrivere.
La prima cosa che mi sono ricordata mentre scorrevo le pagine è l’intervista di Davide Calgaro, un giovanissimo comico italiano, rilasciata a Vanity Fair ormai un po’ di tempo fa, per chi avesse voglia di leggerla si trova tranquillamente facendo una ricerca sul web. L’intervista si intitola “Per capire l’Italia andate nell’area cani”. I temi che Calgaro affronta sono, manco a dirlo, alcuni di cui leggo nel blog e gli stessi di cui spesso mi raccontano i ragazzi che vengono a parlare con me.
Davide Calgaro
Il divario tra generazioni è dilagante in tutta la nostra società e crea etichette, ambiguità, modi di dire, incomprensioni e soprattutto distanza! Come esseri umani ci stiamo allontanando da quello che di più umano abbiamo raggiunto e costruito nei secoli: i rapporti e le relazioni con gli altri, l’essere esseri sociali. Non mancano i contatti o i legami fra le persone, ma non sono comunque caratterizzati dalla distanza? La rete ci permette di re-stare in contatto (appunto) con una persona dall’altra parte del mondo ma non mette ad una certa distanza chi abbiamo intorno? Distanza fisica se pensiamo ai citati e-sport o ai game on line che oggi vanno alla grande, ma allo stesso tempo anche distanza emotiva… distanza di ideali, distanza di pensiero e spesso anche di opinioni che poi è un attimo e naufraga tutto in critica, (pre)-giudizio…
Abbiamo perso il confronto? Abbiamo perso l’ascolto? O ci sono venute a mancare possibilità di confronto e ascolto? Ma poi quando ne sentiamo la mancanza di queste cose, cerchiamo di ritrovarle? Come?
Ci sono alcune domande che mi girano in testa e che ho voglia di rilanciare dopo aver letto questi articoli: come si impara a protestare se nessuno ce lo ha insegnato? E perché qualcuno dovrebbe insegnarcelo? Non possiamo inventare un nuovo modo di protestare? È possibile farlo?
Da chi o che cosa ci sentiamo davvero deviati? La parola devianza non ha forse una parte di significato comune con la parola distanza? E infine contatto può essere una nuova parola rivoluzionaria?
Chissà se le cose che lasciamo in questo blog ci guideranno verso qualche risposta… di sicuro ci aiutano a riflettere e a far circolare le nostre riflessioni.
Prof tanto mica la pubblica questa. Perché poi tanto non cambia niente. E poi se parlo ne esce un papiro. Qualche volta ho l’impressione, no anzi ne ho la certezza che è come il mio quattro a matematica. Il prof me lo ha appiccicato il primo anno di Liceo e ora che sono al quarto non ha cambiato idea minimamente. In compenso tutte le volte che mi interroga mi dice con un sorriso sadico da aringa surgelata che miglioro sempre. Miglioro sempre. Lo dice anche ai colloqui che ho fatto progressioni. Poi puntuale mi rimanda ogni estate. E non è che non studio, tutt’altro, ma è così e non cambia (tanto da farmi perdere la voglia). Non sa cambiare idea né modo di insegnare, e pensa che il mondo sia uguale a lui. E così è Siena per noi giovani. Tanto non lo pubblica mica no? Perché se capisce che è “dedicato” a lui….
Comunque parto da queste cose:
Il fatto che io sia giovane non fa di me un cretino
Il fatto che non compri un giornale non vuol dire che non sono informato (e che non legga online, tryhardando sugli articoli di commento che a volte mi sembrano scritti in codice invece che in italiano, ma sarà che anche io dell’italiano ne parlo un codice)
Il fatto che abbia i brufoli non mi rende cieco, i brufoli non mi coprono gli occhi e non mi crescono sulle orecchie o sulla lingua ma da altre parti.
Il fatto che io abbia diciassette anni e quindi non possa ancora votare (ma vorrei che si votasse a sedici) non fa di me un indifferente. Tra l’altro ci sono imprenditori adolescenti di successo (guarda il figlio di Briatore) come ci sono politici di successo che hanno iniziato da ragazzi la loro attività. E poi l’anno prossimo io ci vado a votare, anche solo per vedere com’è. Senza contare che io so che ci sono in Italia sindaci che hanno vent’anni e non sono peggio degli altri che sono più in là con l’età. Anzi.
Allora io Vi dico che questo blog non serve a niente. Niente. E ve lo dimostro, A meno che qualcuno non sia in grado di rispondere (affermativamente) a queste domande, che poi non sono nemmeno domande, sono cose che la gente pensa e non dice:
– Siena non è una città per giovani. Ma c’è qualcuno che ha capito che quando si parla di giovani si dovrebbe parlare di giovani e non ragionare per categorie dell’ottocento. I giovani NON sono la famiglia, NON sono gli anziani, NON sono la scuola. Sono i giovani punto e basta. E sono sempre meno e sono sempre più con le valigie sotto al letto e lo zaino in spalla. Se ne vanno, ma poi non è che tornano. E a molti dispiace anche di farlo.
–Siena e la Banca. Come mio nonno che me lo vuole sempre insegnare ma io il massimo che conosco sono le carte di Uno, mi pare che tutti, o quasi tutti, in città giocano a Tresette, si scrive così no?, (con il morto). Il morto è la Banca, BMPS: Bella si ma mancano Soldi. Ma c’è qualcuno che dice che il problema non è come dite Voi la città nel 2030. Ma la CITTÀ SENZA LA BANCA NEL 2030, perchè al massimo della Banca come dice mio nonno e di lui mi fido, ci rimane solo il marchio, come la Balzana.
–Siena gli stage e i posti di lavoro: ma qualcuno ha fatto il conto di quante aziende (e di che tipo) sono rimaste a Siena. ZERO. E quelle nuove non bastano di certo a sostituire quelle sparite, dato che dove lavorava mio babbo facevano i servizi per una Banca ma ora non se li può più permettere. All’Università se guardo i piani di studio ci prepareranno per un mondo che se va bene inizia dopo l’Appennino, ma forse direi dopo le Alpi. Allora diversi dei miei compagni dicono che se le cose stanno così tanto vale andarsene subito
–Siena e il turismo. Senti i giornalisti e pare che si lavorerà tutti nel turismo. Ma li avete visti i turisti che vengono in città o li vedo solo io? Tutti in branco fiondati fuori dal bus e ripresi dopo poche ore dall’altra parte che camminano veloce schivando altri bus e altri gruppi, scattando foto senza un minimo di criterio. Mi chiedo sempre se portano dei vantaggi ai negozi e ai locali in città, o solamente alle loro pagine Instagram o Facebook, io li vedo che escono con il telefono in una mano e il panino dall’altra. Come detto prima fanno foto a Piazza del Campo e se va bene al Duomo e al cinghiale in Via di Città e poi basta. Ha fatto più Wikipedro venendo da Firenze sotto Palio con quei video su Youtube per far conoscere Siena tra i giovani che tutti i programmi e siti e annunci degli ultimi anni. Ma Wikipedro è di Oltrarno, noi non c’abbiamo nessuno che può far questo? Perché non ci chiedete a noi di registrare dei video sui nostri quartieri, che mi pare a volte non li conosca nemmeno la gente del Comune? Penso sempre, ma quelli, i turisti intendo, ci entrano in qualche museo oppure no? O per caso finisce che i frequentatori dei musei che fanno statistica siamo solo noi che ci facciamo le giornate o le gite di un giorno. E questi musei, tipo il Santa Maria della Scala, in che condizioni sono? E poi, sono questi turisti che ci servono?. Intanto, noi se si deve vedere un concerto o qualcosa di interessante si comincia da Firenze, perché qui di spazi adatti e di alberghi adatti non ce n’è. Il massimo che ci tocca è “Il pagante”, il dj, che è venuto a Siena probabilmente perché aveva sbagliato strada e dedicandoci mezz’ora del suo “prezioso” tempo.
– Le contrade: è una delle poche cose uniche e buone che abbiamo, ma non mi sembra che si faccia tanto come amministrazione per aiutarle. Fanno loro da sé, con risultati come possono, dato che secondo me non vengono loro dati fondi e spazio adeguati.
–Lo sport: lasciamo perdere. Io nuoto e tra poco senza aiuti mi toccherà farlo nella vasca di casa, per non parare delle giovanili di molti sport, scomparse. Poi dicono che ci si annoia. Per forza tra poco ci sono rimasti solo gli e-sport
Ma alla fine non è mica solo la vostra generazione che ha paura di pronunciarsi su queste cose per tante ragioni. Noi poi non è che sotto sotto siamo tanto meglio. Si sta zitti. Come voi. Del resto manco in campagna elettorale si è vista gente che si incazzava o che era contenta nè delusa di chi vinceva. E chi dice che i nostri coetanei in Iran, in Brasile o in Russia o Ucraina sono più attivi, forse ha ragione. Solo che a noi non ci hanno insegnato nemmeno a protestare. SI insomma forse dovremmo fare noi qualcosa e se il Venerdi si va ai Fridays for future col treno e il bus, forse un altro giorno si dovrebbe fare la stessa cosa a Siena, per il futuro di questa città. Per farsi vedere. Perché ci siamo. Forse potremmo fare i Mercoledi per Siena: è giorno di mercato e sarebbe tempo speso bene. Io credo che se già ci vedessero, tanti in silenzio a sfilare per la città i politici o i futuri candidati qualche domanda se la farebbero.
E poi servono tanti quattrini: ma per tirarli in città da fuori ci voglio delle cose specifiche, dei progetti, della comunicazione. Io nei programmi che mi ha fatto leggere non ne vedo mezza di riga spesa per come e con quali canali raccogliere finanziamenti E se vado fuori Siena, e la mia ragazza è di Como e ci vado spesso fuori Siena, ci conoscono e male per il Palio e basta. E loro si invece che fanno comunicazione e destination management serio, lo so perché la mia ragazza ci lavora. Ma lo sa quanti posti di lavoro ci sarebbero a fare una cosa seria? Io si e voi?